Hunger Games vs Battle Royale
- Scritto da Giulia

Che la Collins abbia tratto ispirazione da “Battle Royale” di Koushun Takami per il suo fortunatissimo “Hunger Games”, è un dato di fatto. Nessuna novità eclatante. Quindi non scandalizzatevi se in entrambi i libri troverete una schiera di ragazzini uccidersi in un crudele gioco senza senso. D’altronde, i riferimenti letterari sono anche tanti altri: da “1984” di George Orwell, a “Il signore delle mosche” di William Golding, per arrivare fino a “L’uomo in fuga” di un giovanissimo Stephen King, quando ancora si faceva chiamare da tutti Richard Bachman.
Dunque: omaggio o plagio al romanzo giapponese di Takami?
A dire il vero, nessuno dei due. A mio parere, la Collins è semplicemente riuscita a cogliere a pieno l’essenza di questa epoca. Si parla così tanto di mash up, remix e ricontestualizzazione, che l’autrice statunitense non ha fatto altro che appropriarsi dell’intreccio narrativo di un libro che ha sicuramente letto, modificandolo in una chiave più attuale e contemporanea. Bingo. “Hunger Games” è slittato al vertice delle classifiche, diventando in men che non si dica un vero e proprio caso editoriale. Chiamatela stupida.
Ma andiamo con ordine.

In cosa si differenziano questi due libri? In breve.
In “Battle Royale”, la Repubblica della Grande Asia dell'Est impone ogni anno la partecipazione casuale di una classe di terza media al cosiddetto “Programma”. Un gioco mortale tra quindicenni che dotati di un collare rivelatore di posizione e di armi devono uccidersi tra loro. Vince: l’ultimo sopravvissuto. Nessuna spiegazione al gioco: “in questo paese è terribilmente difficile far finire qualcosa che è già stato stabilito”. L’assurdità della faccenda risiede in un paese totalitario e completamente folle, a cui nessuno si è ancora ribellato.
In “Hunger Games”, invece, esiste una motivazione a tutto questo delirio. Panem, una nazione nata dopo la distruzione del Nord America, si compone da Capitol City e da 12 distretti periferici. Come punizione per un precedente tentativo di ribellione in contrasto al potere della capitale, ogni anno un ragazzo e una ragazza tra i 12 e i 18 anni vengono sorteggiati a partecipare agli Hunger Games, un reality show nel corso del quale i “tributi” vengono letteralmente buttati all’interno di un’Arena appositamente costruita, dove devono combattere fino alla morte. Vince (tanto per cambiare): l’unico rimasto in vita.
Mentre “Battle Royale” non segue una direzione precisa e si focalizza principalmente sulla violenza e la brutalità con cui questi ragazzini si ammazzano a vicenda, “Hunger Games” cerca di dare un senso, o almeno si sviluppa sulla volontà di porre fine a queste atrocità.
La freddezza dello stile di Takami non permette di affezionarsi a nessuno dei protagonisti, che per l’intero libro (e sono oltre 600 pagine!) durano non più di un capitolo. Caricature forzate e alle volte quasi fastidiose. Ragazzini che fino al giorno prima giocavano a scambiarsi le figurine che, improvvisamente, usano una falce contro il proprio compagno di banco come se nulla fosse. Per non parlare poi del linguaggio utilizzato: si passa da “Dai, non essere scortese. Stai dicendo che Kazumi è grassa? È solo appena paffutella” a: “Ucciderò quel fottuto bastardo!”. Il traduttore dovrebbe rivedere alcuni passaggi. Il lettore volta pagina solo ed esclusivamente per assistere ad una nuova uccisione e si spera con tanto sangue. Nemmeno il protagonista, l’affascinante, il generoso, il disponibile, il buono, l’adorabile, ecc… Shuya, riesce ad attirare l’attenzione su di sé.

Per finire: meglio “Hunger Games” o “Battle Royale”?
Per fare i fighi, la risposta giusta è sicuramente “Battle Royale”. L’originale, il violento, il romanzo pulp fantascientifico best seller in Giappone. Quello che mostra la crudeltà dell’uomo per quello che è, senza sprecare tempo su intrallazzi amorosi. Mi sembra già di sentire i commenti: «Hunger Games è solo una copia per ragazzini e tra l’altro venuta male».
Già.
Ma se devo essere sincera ed estremamente critica, mai e poi mai mi sarei aspettata che un libro young adult potesse prendermi così tanto. Eppure, così è stato. I miei complimenti alla Collins che è riuscita quantomeno a stupirmi e a smentire i miei pregiudizi iniziali. Struggente, avvincente e surreale: leggere “Hunger Games” ti fa tornare i brufoli. Provare per credere.
In ogni caso, dopo averli letti entrambi, sono giunta a questa conclusione: in seguito a tutte queste morti, il prossimo libro che leggerò sarà sicuramente un romanzo d’amore!